Un’ottima strategia quella di aprire “Bad Behaviour”, recentissimo album di Kat Frankie, con l’omonima traccia, dacché si tratta di un brano altamente fruibile, il quale cattura fin dal primo ascolto e cionondimeno risulta assolutamente profondo e ricco di originalità. Attraverso lo charme della voce della cantante, che da dinamiche molto soffuse raggiunge eleganti falsetti, appoggiandosi ad una linea retrò di organo in comunione con un’altra scandita da note stoppate di chitarra, non distanti da “Prolix Mood” dei Thanathopsis, si può immediatamente percepire l’anima pop, curata e fresca, dell’intero disco.

La voglia di immergersi in un’estiva danza vespertina, quasi caraibica, non può che spuntare veementemente all’ascolto della seconda canzone, “Swallow you whole”, sorretta da una linea di percussioni afro-cubane, una chitarra molto scura, dalla sonorità prossima al basso e l’organo che richiama la già citata title-track. Molto mirata la scelta dei cori, che insieme ad un synth pad acusticamente altalenante, arricchiscono l’atmosfera della composizione che inoltre, grazie all’intervento di una batteria scandita eppure partecipe di richiami jazzistici, si chiude in bellezza mediante uno special ricco di potenza.

“Home”, in terza posizione, marca con aggressività le influenze rock dell’artista, che in effetti non mancano nella relativa tecnica vocale. Un riff di chitarra, dal timbro simile a quello di “Bleed it out” dei Linkin Park – forse a tratti fin troppo “sintetico” – solca la strofa, la quale esplode in un ritornello dal carattere più morbido, che tuttavia non lascia attendere un outro graffiante dalle venature quasi punk, pieno di power-chord e rullate rapidissime.

Tendenzialmente più elettronica, "Forgiveness", si presenta come un segmento di colonna sonora di “Machinarium” cantata da Bjork; insomma, si tratta di un componimento malinconico che trasporta in luoghi antropici ma abbandonati, forse un po’ polverosi, ma colmi di rimembranze che si collocano su quella linea ineffabile tra tristezza e gioia. L’incredibile forza evocativa è indubitabilmente l’aspetto più rilevante della traccia. Perfetta la scelta del suono del sintetizzatore.

In quinta posizione, capace di perpetuare la sommessa atmosfera precedente, è collocata “Versailles”, che a mo’ della seconda composizione, sfrutta con maestria i cori per sorreggere la linea principale di voce. L’arrangiamento di batteria, synth – a tratti quasi noise – e di chitarra “à la Jonny Greenwood”, sono quei particolari che rendono un album, come quello in questione, digeribile ad un grande pubblico eppure affascinante anche per chi è in cerca di lavori più atipici.

“Headed for the Reaper”, sembra voler unire alcuni aspetti della sgargiante cultura anni ottanta, tramite un synth acusticamente vicino alla celeberrima “Axel F” di Harold Faltermeyer, commista a riferimenti alla soundtrack di “Rocky IV”, con uno stile di canto più moderno ed una linea di fiati, quasi rhythm and blues, per tacere dell’intermezzo modale.

Ballad emotiva e raffinata, “Finite”, segue l’allegria accesa primariamente. Viole, pianoforte, cori in lontananza ed una voce limpida ed avvolgente plasmano la breve canzone, capace di stimolare il ricordo di “Nevermore” dei Queen.

“The sun” si pone come una rampa ascendente verso il brio tipico della maggior parte del minutaggio della raccolta. Un pot-pourri di tastiere di variegato carattere, accompagna un cantato energico ed orecchiabile.

Verso la chiusura dell’album, si trova “Back to life”. Distinto da un effetto vocale concettualmente rassomigliante a quelli di Banks, esso può essere considerato il brano più pop, secondo la attuale concezione del termine, dell’album. Un riff elettronico alla Stromae e fugaci pause enfatizzanti il groove generale del pezzo, che comunque non tradisce la classe dell’opera, appiccicano le note alle coclee del fruitore. Peccato per il finale, che ai primi ascolti risulta troppo netto.

“Spill”, l’arrivederci di Kat Frankie – ammiccante (seppur inconsapevolmente, con buona probabilità) ad “Au Revoir” degli Stadio, relativamente ad andamento e chiarezza esecutiva – serve a sentirsi invogliati a riprendere da capo l’ascolto dell’album. La gentilezza espressiva dell’arrangiamento riporta indietro di qualche anno: esso si apprezza se si riesce a percepirlo con una certa ingenuità estetica, tipica di chi ancora, immerso sopra i manuali scolastici, si concede la libertà di intraprendere un viaggio notturno.

In conclusione, “Bad Behaviour” risulta essere un lavoro partecipe di attenzione e tecnica, adatto ad una vasta varietà di musicofili. Seppur forte di innumerevoli brani di eccellente fattura, talvolta la medesima raccolta pare essere carente di ispirazione (prevalentemente all’interno della sesta e dell’ottava traccia) in alcuni momenti e ciò potrebbe portare alla distrazione del pubblico durante l’esperienza acustica. Un maggiore utilizzo di armonia o contrappunto – in chiave moderna, si intende – sicuramente potrà estinguere questa lieve sbavatura nelle prossime opere.

 

Jacopo Bucciantini